Chieri: per Aldo Levi l’ultimo saluto al cimitero ebraico
Questa mattina con una sobria cerimonia nella sezione ebraica del cimitero di Chieri è stato dato l’ultimo saluto ad Aldo Levi. Il rabbino e la vicesindaco Olia hanno ripercorso la lunga e laboriosa vita di Aldo, il suo impegno anche nell’associazionismo chierese.
Noi vogliamo salutarlo riproponendo un articolo apparso su Centotorri nell’aprile 2005, a firma di Daniela Bonino, nel quale Aldo ricorda gli anni drammatici della guerra, quando dovette stare a lungo nascosto per sfuggire le leggi razziali e il generoso aiuto avuto dagli amici.
Vivere a Chieri nel 1938, avere diciott’anni ed essere ebreo. Com’era allora la vita? “Normale, come quella di ogni ragazzo”. Ce ne parla Aldo Levi, ex-imprenditore passamantaio, la cui famiglia era l’unica ebrea a Chieri a quel tempo. “Lavoravo a Torino, in via Mercanti, in un magazzino di stoffe. Tutte le mattine prendevo il treno ed andavo al lavoro. La sera tornavo. La situazione era tranquilla, tanto a Chieri quanto a Torino. Andavo dappertutto, tutti ci conoscevano e ci stimavano”.
La situazione cambiò di colpo proprio in quell’anno, con l’emanazione delle leggi razziali. “All’improvviso perdemmo ogni diritto civile. L’aspetto positivo fu che non fui chiamato al servizio di leva: lo Stato non ne voleva sapere di noi ebrei. non ne voleva sapere di noi ebrei. Per il resto per me cambiò poco. Fu diverso per gli impiegati statali che persero il posto di lavoro, per gli insegnanti che non poterono più insegnare, per gli studenti che si videro chiudere le porte di tutte le scuole del Regno”.
Anche per Aldo Levi però, come per tanti altri, la situazione peggiorò nel 1940, ai primi bombardamenti. “Andare a Torino era diventato troppo pericoloso, per cui restai a casa, ed anche i nostri parenti che vivevano a Torino vennero a rifugiarsi da noi, dove la situazione era un po’ più tranquilla. Per alcuni giorni ci accampammo in venticinque in casa mia. Ma in breve trovarono da sistemarsi. Sostanzialmente non si viveva male, per quanto si possa stare tranquilli vivendo in guerra”.
Ma la loro condizione era destinata a peggiorare. Continua il racconto Aldo Levi: “Non avendo più lavoro, andavo in giro. Una mattina, eravamo nel ’43, in piazza Cavour vidi arrivare una motosidecar su cui era montata una mitraglietta, con due militari a bordo. Erano i primi tedeschi che si vedevano a Chieri. Tornai a casa per avvertire i miei e mio padre minimizzò. Mi disse che non avevamo fatto niente di male. Che non c’era motivo di avere paura. Ma si sbagliava. Una ragazza del nostro giro di amicizie, che era stata chiamata dai tedeschi perché conosceva la loro lingua, ci informò che stavano cercando gli ebrei. C’eravamo solo noi a Chieri e avemmo paura. Scappammo all’alba, a piedi – i miei genitori, mio fratello Giorgio ed io – fino a Baldissero, ospiti di un amico di mio padre che aveva una cascina.
Ci rimanemmo fino all’8 settembre del ’43. In fondo non stavamo male, c’erano tanti altri sfollati, ci eravamo inseriti bene. In quel tempo le informazioni circolavano poco, eravamo consapevoli che una guerra era in corso, ma ci toccava poco, noi giovani andavamo a ballare e ci divertivamo come tutti i ragazzi”.
Ma la persecuzione più dura era già iniziata. Il “Manifesto programmatico fascista”, approvato a Verona il 14 novembre 1943, stabilì che gli appartenenti alla razza ebraica erano stranieri e pertanto nemici. Fu decretato il loro internamento nel campo nazionale di Fossoli, nel comune di Carpi, in provincia di Modena, in attesa di essere deportati nei campi tedeschi. A quel punto la paura si insinuò nella famiglia Levi, per loro e per coloro che generosamente li avevano ospitati. Presero una decisione dolorosa: i genitori andarono a Riva di Chieri, ospiti di alcuni altri amici; Aldo e Giorgio si nascosero in una cascina nei boschi di Pino Torinese. “Era un posto molto isolato”, racconta Aldo Levi, “non passava nessuno. Sapevamo che sulla collina c’era una batteria antiaerea, per cui di giorno stavamo nascosti, uscivamo solo di notte. La vita divenne dura, non avevamo risorse. I nostri ospiti erano gentili, ma non potevamo approfittarne troppo, non era facile nemmeno per loro. In quel periodo facemmo la fame, ci prendemmo anche la scabbia, il tempo non passava mai. Non eravamo in un campo di concentramento ma facevamo una vita da reclusi; avevamo notizie dei miei dalla fidanzata di mio fratello, Rina Serra, che ogni tanto veniva a trovarci”. Quando vennero a sapere che i tedeschi facevano dei rastrellamenti con i cani lupo, per scovare i soldati che dopo l’8 settembre si erano sbandati, si spaventarono davvero. “Ricordo che scavammo una buca nel bosco e la coprimmo con delle frasche. Passammo alcune notti accucciati nel terreno umido, circondati da pepe che avevamo sparso intorno per disturbare il fiuto dei cani”.
Era una situazione insostenibile, aumentavano i rischi anche per chi li ospitava. A febbraio del ’45, quando dalle notizie frammentarie che giungevano sembrava che la guerra dovesse finire da un momento all’altro, la fidanzata di Giorgio propose di nasconderli a casa sua, a Chieri.
Ora Aldo Levi sorride nel ricordare il trasferimento. “Eravamo giovani, e da giovani tutto è più sopportabile. Scappammo vestiti da donna, con degli abiti che ci procurò Rina. Era inverno, e questo ci facilitò. Ci rasammo con cura, indossammo delle gonne lunghe, ai piedi avevamo degli scarponi con i calzettoni rivoltati; in testa mettemmo un foulard, tirammo i capelli sulla fronte per simulare la frangetta”.
La casa di Rina era in via Vittorio Emanuele, a fianco dell’Arco. “Passammo lì gli ultimi mesi di guerra. Immobili quando lei usciva perché nessuno si accorgesse della nostra presenza, poiché lei viveva sola. Il 20 aprile arrivarono i partigiani. Attraverso le persiane chiuse della finestra assistemmo alla battaglia con le camicie nere. Non ci furono morti, ma alcuni feriti sì. La pasticceria Negro, dove ora c’è Basiglio, venne devastata; così pure un negozio di parrucchiere in via XX settembre. E la paura attanagliò Aldo e Giorgio Levi quando i fascisti minacciarono di andare negli alloggi a cercare gli uomini. Trascorsero alcuni giorni di ansia, fino a quel tanto sospirato 25 aprile, quando la liberazione venne finalmente a rendere la vita ad Aldo e alla sua famiglia. “Il ricongiungimento con i nostri genitori fu commovente. Potere di nuovo andare per strada, senza più paura, ci sembrò di rinascere”.
Un particolare grottesco avvenne due anni dopo, nel ’47, quando Aldo ricevette la cartolina precetto. Lo Stato che per anni lo aveva rinnegato, ora pretendeva che assolvesse il dovere militare. “Per fortuna il colonnello cui mi rivolsi riconobbe il ridicolo della situazione e tutto si appianò”, ricorda ora Aldo. A quell’epoca aveva già iniziato la sua vita da imprenditore a Chieri, dopo quella dolorosa parentesi. Vita operosa e stimata, senza assurde discriminazioni che non hanno ragione di esistere.
Nella foto Aldo al Ghetto di Chieri