Covid-19: viaggio nel contagio e ritorno. Alcune considerazioni di Patrizio Onori, vicepresidente di Asti Pride

Patrizio Onori

La pandemia da coranavirus è un flagello che si sta allargando a macchia d’olio sempre più velocemente e a tutti ormai sembra di sapere tutto sul famigerato Covid-19. Ma in fondo che cosa sappiamo veramente della malattia, del suo ingresso e del suo decorso? Conosciamo i numeri dei contagi, dei morti, dei guariti, ma nemmeno tutti perché non ci viene detto ancora bene chi entra e chi resta fuori dalle statistiche.

L’isolamento non ci permette neppure di stare vicino a chi è malato o a chi ha contratto il virus e deve stare in quarantena. La quarantena di chi è positivo è poi avvolta da un certo mistero perché nessuno ne parla, quasi fosse una colpa da espiare in silenzio.

Di queste considerazioni e di molto altro abbiamo parlato in un colloquio via skype con Patrizio Onori, bancario e vicepresidente dell’associazione Asti Pride, uno dei primi a parlare pubblicamente, attraverso la sua pagina Facebook, del suo “viaggio” all’interno del contagio e della quarantena e di tutte le perplessità con cui si è trovato a confronto prima di avere la diagnosi definitiva.

Innanzitutto come sta?

Ora bene, ho ancora un po’ di tosse secca, ma la febbre è passata. Dovrei esserne ormai fuori. Sono agli ultimi giorni di isolamento, ma solo i tamponi a fine percorso (due a distanza di 24 ore) potranno dirlo con certezza.

Vuole raccontarci come ha scoperto di essere positivo al Covid-19?

Non è stato semplice come mi aspettavo. Ho cominciato ad avere una febbre intermittente e tosse secca, due dei sintomi indizio del contagio, quindi, d’accordo con il medico di famiglia ho preso alcuni giorni di malattia. In seguito ho saputo che un collega di lavoro è risultato positivo al tampone, quindi, se due indizi possono essere una coincidenza, tre possono già considerarsi una prova. Ho quindi contattato i numeri consigliati. Prima quello regionale  (800192020) che mi ha indirizzato al 112. Qui le risposte non sono state molto incoraggianti. L’operatore mi ha chiesto se volevo l’ambulanza per la visita in pronto soccorso. Ma io sono il paziente. Se ho bisogno dell’ambulanza dovrebbe saperlo la persona che sta dall’altra parte del telefono. Ho chiesto quali erano le alternative e sono stato “rimbalzato” alla Guardia medica. Il dottore della guardia medica, pur riconoscendo nei miei sintomi un quadro riconducibile al Covid-19, mi consigliato di tenere sotto controllo la febbre e di riferirmi il giorno dopo al mio medico di famiglia.

Si aspettava di essere sottoposto al tampone?

Sinceramente me lo auspicavo, avendo i sintomi conclamati della malattia ed essendo entrato in contatto con un contagiato e, detto per inciso, visto che l’Asl mi ha chiamato per ricostruire la catena del contagio il 19 marzo. E’ inevitabile fare alcune considerazioni sui protocolli sanitari che dovrebbero, a circa un mese dall’esplosione dell’emergenza, avere già un percorso ben definito e spedito. Fuori da ogni polemica, devo registrare che ho dovuto ribadire più volte che avevo i sintomi in corso agli operatori che rispondono ai numeri d’emergenza. Ad ogni chiamata al numero verde e al 112, il 16 marzo, ho ricevuto risposte diverse. Il 19 marzo, quando sono stato contattato dal Servizio Sanitario che mi avvertiva dell’esposizione ad una persona positiva, purtroppo, ho sentito una certa sottovalutazione del problema. Il 20 marzo invece mi ha richiamato un altro operatore e mi ha preannunciato il tampone per il giorno stesso.

Quando ha avuto i risultati?

L’esito è arrivato quattro giorni dopo, il 24 marzo. Dal punto di vista psicologico non è una bella esperienza, perché, anche se viene attivato un monitoraggio che passa attraverso una telefonata per sentire il decorso della febbre e dello stato generale, il non sapere non è del tutto rassicurante. In più molte precauzioni che abbiamo preso mio marito ed io nei primi giorni, dal 16 al 19 marzo, sono state, per così dire, autogestite, affidandoci al buonsenso: dati i miei sintomi e con l’accordo del medico di famiglia, mio marito è rimasto in isolamento anche se in perfetta salute. Non ci sembrava il caso, non sapendo ancora se io avessi contratto il virus, di rischiare di infettare altre persone. Ma nessuno ha consigliato a mio marito, in quei primi giorni, di stare in isolamento. E non mi sembra tanto normale che non ci sia una procedura codificata in questi casi.

Che cosa si sente di dire dopo aver attraversato l’odissea del Covid-19?

Innanzitutto che se c’è un protocollo, deve essere un protocollo uguale per tutti. Non mi sembra accettabile che alcuni personaggi pubblici ricevano il tampone e il risultato in poche ore, anche in assenza di sintomi, usufruendo del servizio sanitario nazionale, mentre i comuni cittadini debbano attendere giorni o non essere presi minimamente in considerazione, anche in presenza di sintomi conclamati. L’isolamento, poi, non può essere lasciato all’improvvisazione o al buonsenso delle persone. Devono esserci regole precise per chi ha dei sintomi e per i loro congiunti conviventi. Capisco il momento di sbandamento iniziale, ma le procedure devono essere messe a punto meglio, soprattutto in itinere, per la sicurezza di tutti.

Ringraziamo Patrizio Onori per questo “diario” personale e puntuale del confronto con l’insidia coronavirus. Speriamo che possa essere utile per una riflessione generale su come migliorare la “presa in carico” delle persone contagiate, soprattutto se presentano sintomi conclamati. Nel frattempo facciamo i nostri auguri di pronta guarigione a Patrizio.

 

Carmela Pagnotta