PSICOLOGIA & SPORT – La rissa nel campo da calcio di Riva presso Chieri: l’educazione che passa anche dal gioco-sport.
Il percorso storico del vissuto calcistico è denso di vicissitudini intense, gioie grandiose, sofferenze enormi e grandi intelligenze che hanno contribuito ad appassionare la maggior parte del popolo italiano che continua a identificarsi, amare e seguire questo sport, a volte in modo responsabile e tante volte in modo violento.
Gli educatori sportivi dovrebbero contribuire a promuovere una coscienza sociale di rispetto del sé, dell’altro e degli altri, oltre il risultato, il record, la performance, il business che fanno perdere di vista lo sforzo della gara, del gioco come presa d’atto dei propri limiti, delle proprie e altrui capacità della propria e altrui voglia di superamento, del desiderio di confronto, dello stare insieme per condividere le emozioni del gioco sportivo. Nello stop imposto dalla pandemia Covid l’educazione alla convivenza civile passa ora più che mai attraverso la vita di gruppo esperita nel saper assistere alla partita di calcio della squadra del cuore o nel saper giocare nella propria squadra senza perdere il controllo dell’emotività. L’educazione all’intelligenza critica passa attraverso il saper valutare le proprie capacità i propri limiti e i possibili punti di forza su cui far leva per superarli, nel rapporto dialettico con il proprio mister quando si mettono a punto le strategie di gioco in relazione agli obiettivi da conseguire. Il risultato è poi quella variabile da condividere. Le recenti scene viste in TV, o immaginate sui quotidiani, circa la rissa nel campo di calcio chierese, dove baby calciatori di una squadra parigina, malmenano il dirigente della squadra avversaria (padrona di casa) sceso in campo per mitigare gli animi durante una partita amichevole, la dice lunga sulla capacità della regolazione emotivo – affettiva da parte di adolescenti che dovrebbero imparare a gestire in modo funzionale la frustrazione e ahimè, pretendono di avere con la forza una ragione che forse non hanno. La competizione stessa, nello sport sano, può diventare occasione di educazione sociale, al fair play, senza creare il mito della predominanza, del campionismo, o a ridurre il terreno di gioco a “campo di battaglia”, in cui la vittoria è raggiungibile solo con l’eliminazione dei più deboli. L’avversario è necessario per giocare. Senza “l’altra squadra” il gioco è già finito prima ancora di cominciare. É possibile recuperare la positività del gioco e dell’agonismo a condizione che si possa favorire anche la cooperazione, il lavoro di gruppo e la spinta all’emulazione senza dimenticare che chi perde, domani potrà vincere. In particolare, il ruolo del gioco nella coscienza morale e civica del minore, va formato in età scolare a fondamento dei valori di lealtà, solidarietà, del rispetto reciproco e fratellanza che uniscono gli uomini di tutto il mondo e che dovrebbero animare ogni competizione sportiva in genere. L’educazione calcistica necessita di frequenza assidua per allenamenti e partite, i giovanissimi in molti casi sono accompagnati dai loro familiari che hanno un ruolo importante anche nella formazione sportiva dei loro figli. Troppe volte le famiglie creano invece situazioni difficili in quanto tendono a considerare questa disciplina come veicolo di futura affermazione del loro “calciatore in erba”, che vedono come un “talento nato”. Durante le partite si scatenano risse familiari, come se davanti a loro giocassero dei professionisti. I parenti dei piccoli giocatori, si alterano, urlano consigli e azioni pesanti nei confronti della squadra avversaria. Il comportamento dei genitori[1] dimostra troppe volte una visione assolutamente alterata e inadeguata rispetto alla realtà vissuta. Padri, madri e parenti stretti, creano tante situazioni conflittuali con gli allenatori, gli arbitri, i compagni di gioco del figlio, ma soprattutto compromettono l’iter formativo del giovanissimo che si disorienta ed entra in conflitto con tutta quella serie di rapporti umani che invece dovrebbero essere cardine della sua completa educazione sportiva. L’educazione calcistica dovrebbe diventare un’educazione permanente monitorata da addetti ai lavori a favore degli adulti, nell’ottica di far mettere in pratica una serie di norme comportamentali necessarie a migliorare il comportamento e il rispetto verso il calcio in generale e lo spettacolo sportivo. Il calcio è una formazione di vita alta perché insegna a rispettare il “gruppo”. All’interno del gruppo c’è tutto. Un calciatore cresce a contatto con i compagni che hanno la loro personalità il loro modo di fare, ma per interagire con il gruppo, per “girare insieme”, il modo di rispettare le regole. Un squadra diventa solida se insieme supera i momenti difficili. A volte ci sono giocatori che hanno rese ottimali, poi arriva l’infortunio e il gruppo deve esserci per sopperire. Un calciatore professionista non è solo quello della domenica, ma di tutta la settimana e poi ciascuno ha la sua vita e le sue giornate. Ciascun calciatore partecipa con altri dieci per vincere la partita. Insieme alla condivisione delle abilità, alla disponibilità dei migliori e del migliore, si crea la squadra. Le situazioni vanno contestualizzate e portate avanti nel gruppo. I problemi personali, dalla famiglia alla fidanzata e così via, in campo non si portano ed è sempre il gruppo che aiuta a superare. Concludendo ogni sport praticato sia a livello professionale, sia a livello amatoriale, arricchisce la persona nella sua globalità. L’approccio verso un’attività motoria qualsiasi rimane una grandissima opportunità di crescita, nel giovane fanciullo quanto nell’adulto. Il contesto ambientale, culturale e sociale, ove avviene l’insegnamento, non deve essere fattore condizionante in forma negativa ma deve essere ripreso e rielaborato al fine di costruire una nuova “esperienza ludica” capace di ridare luce, promuovendo proprio quella sapienza al movimento nella nuova corporeità, di cui si parlava all’inizio. Il gioco del calcio, nello specifico, riveste un’importanza basilare nella diffusione di quei saperi più “celati”che ne fanno il gioco più amato di sempre. Rivelare l’arte del calcio nelle sue nuance più intime è compito proprio dell’allenatore o meglio, dell’educatore sportivo, che in primis deve dimostrare, non solo padronanza e conoscenza tecnica al fine gestire le varie intelligenze umane che si avvicinano alla disciplina, ma deve manifestare una forte intelligenza egli stesso, una grande sensibilità in grado di innalzare quella coscienza morale totale che fa Parte dell’Uomo e che deve essere sapientemente stimolata per renderlo migliore. Il “buon sacrificio”, l’osservanza delle regole, il rispetto del sé e degli altri per raggiungere quella civile convivenza, educare al diverso nelle identità, guidare alla speranza, vede nell’Educazione Motoria e nello Sport il più alto strumento per raggiungere quel “premio finale” che è la gioia autentica.
Roberta Benedetta Casti,
Psicologa dello sport,
docente in Scienze Motorie e Sport
[1] Ricci G., Il Calcio giovanile come occasione di educazione, Compagnia dei Librai, Piero Barboni Editore, Genova 19
1998, pp. 14/16.