Ricordo di Padre Benedetto Fulgione. Fu tra i fondatori nel 1965 di Cronaca Chieresi

A mesi di distanza scopro che, all’età di novantacinque anni, è venuto a mancare a Napoli, nello scorso aprile, Padre Benedetto Fulgione o.p. di casa, nella seconda metà del secolo scorso nel convento di San Domenico di Chieri. Per quanti l’hanno conosciuto e stimato (ormai cominciamo a non essere più numerosissimi) è stata una figura di spessore e di riferimento socioculturale aperta al dialogo con la comunità; per che si sentiva credente anche un interlocutore con cui dialogare e confrontarsi sui ‘fondamentali’ del cattolicesimo prè e post Concilio e della dottrina sociale della Chiesa. È cofondatore, a metà del 1965 – insieme a Secondino Cerrato, Enrico Toia, Cesare Roccati, Maurizio Fasano, cui si aggiungeranno Franco Verrua e Mario Badoglio, Marisa Gazzano, Graziano Camporese e, già a fine 1965, alcuni giovanissimi (maggiorenni di lì a poco): Silvio Coraglia, Giovanni Savarino e chi scrive – del settimanale Cronache Chieresi (ininterrottamente in edicola dal 12 novembre 1965 al 27 luglio 1983.

Padre Benedetto Fulgione campano di nascita, in Piemonte dai primi anni Cinquanta, dopo aver studiato a Torino presso il plurisecolare convento di Santa Maria delle Rose, si stabilisce nel convento di Chieri in qualità di vice priore diventando per alcuni anni la guida spirituale dell’intera redazione ma non solo. Sempre pronto al confronto e al dibattito e in qualche caso alla polemica, seppur costruttiva, con gli ambienti laici e marxisti cittadini passano alla storia i memorabili  duelli sul settimanale – non sempre in punta di fioretto – con Michele Benedetto figura carismatica del p.c.i. locale. I suoi scritti, firmati con tre asterischi, appariranno spesso sulla prima pagina di Cronache Chieresi sino a quella primavera del 1968 quando a causa di una polemica aperta che coinvolgeva Il professore del Liceo Bettino Betti subirà per mano dei suoi Superiori un repentino e mai del tutto spiegato ‘trasferimento’ sotto il Vesuvio. Ritornerà poche volte all’ombra dell’Arco per un veloce saluto cui aggiungeva l’invito a non tradire mai quei valori, quegl’ideali, quei principi di onestà e solidarietà sui quali era stata costruita – non senza sforzi – la nostra profonda e duratura amicizia.

Al momento della partenza Cesare Roccati lo saluterà così dalle pagine del ‘suo’ settimanale (perché era anche suo): “Lui  è nato nel profondo sud dove le ragazze hanno i capelli nerissimi, la gente è allegra e le spiagge corrono lunghissime prima di perdersi in un mare infinito. Io, invece, sono nato qui in Piemonte dove gli uomini lavorano in silenzio e il loro carattere è duro e forte come le loro colline. Lui mi ha insegnato la purezza e la bellezza dell’amicizia, il valore, la dignità e la grandezza dell’uomo. Io l’ho aiutato a capire Pavese, Fenoglio, la mia terra e, forse, anche altre cose. Lui mi ha dato molto; io invece gli ho dato poco. Lui ha qualche anno più di me. Talvolta sorridendo gli dico che abbiamo la stessa età e lui, scherzosamente, si arrabbia: non perché rimpianga gli anni perduti, quanto piuttosto “perché – dice lui – c’è ancora tanto da fare”. (…) Ora che se ne va rimpiango soprattutto che dovrò crescere e lottare senza di lui. E non per egoismo ne sono certo. Piuttosto perché c’è “ancora tanto da fare” in questa nostra laboriosa e antica comunità. C’è da dare un volto più civile alla città, un’anima alle fabbriche e ci sono tante aspirazioni giuste che sono da sempre inascoltate e represse. Sono tutte cose che abbiamo scoperto assieme e a cui, lui, sempre ha dato un nome e un significato. Sono tutte cose che ora conosco benissimo e che dovrò affrontare; ed ogni volta che lo farò penserò a lui. A quell’uomo giunto un giorno da lontano che tanto ha amato la nostra città per cui tanto si è battuto con una dedizione di cui pochi chieresi, forse, sono capaci. E, soprattutto, sempre con una profonda umiltà, un amore sincero e una grande levatura intellettuale e morale”

 

Valerio Maggio