LE PERLE NERE DELLA MUSICA a cura di EDOARDO FERRATI
Doppia ricorrenza per il tenore CARLO BERGONZI, una delle figure centrali del Novecento circa il melodramma: il centenario della nascita (Vidalenzo di Polesine Parmense. 13 luglio 1924) e il decennale della scomparsa (Milano, 26 luglio 2014).
Nato in una famiglia di agricoltori e casari, termina gli studi con la quinta elementare. Iniziò gli studi al Conservatorio di Parma come baritono.
A diciannove anni venne arruolato nel Quarto Reggimento Artiglieria di Mantova, internato in un campo di lavoro forzato in Germania. Rientrato in Italia, proseguì gli studi di canto a Brescia .Lo stesso tenore indicò nel 1947 l’anno del suo esordio nel piccolo teatro parrocchiale di Varedo, presso Milano, come Figaro ne “Il barbiere di Siviglia” cui seguì un impegno in un teatro vero, il Politeama di Lecce. Iniziò così la carriera come onesto baritono. Due anni dopo si accorse che le difficoltà che incontra sono dovute a una errata impostazione vocale. Passò, quindi, al registro tenorile, studiando in solitudine, aiutato solo da un diapson ed esordendo nel 1951 a Bari in “Andrea Chénier”.
Attivo nei principali teatri italiani, europei, statunitenso e al Colon di Buenos Aires- Terminò la carriera nel 1995 con un serie di concerti a Vienna, Milano, New York, Parigi. Voce chiara e con inflessioni, brunita nel medium, sorretta da una eccellente preparazione tenica, forse la più raffinata del periodo in ambito tenorile.
Famoso in particolare il controllo assoluto della parola che gli consentiva frasi lunghissime senza alcun apparente sforzo, a cui andava affiancato un senso del fraseggio senza essere in possesso di doti naturali eccezionali. Tipico tenore centrale che in acuto mantiene le capacità della voce fino al SI bemolle che rieusciva ad attaccare in “pianissmo” e poi a rinfonzare come a diminuirlo dopo averla aggredita a voce piena.. Il regsitro centrale restò pressocchè intatto fino al ritiro.
L’interpretazione di Bergonzi nasceva dalla stretta unione della tecnica vocale con la fantasia dell’accento senza il ricorso ad artifizi della parola, il parlato ed altri effetti grauiti. . Oltre a rispettare in modo scrupoloso la scrittura verdiana, a cui sapeva infondere un accento sempre ampio, vibrante in sintonia con il momento pasicologico dei personaggi, evidenziando così aspetti inediti anche dei titoli del primo Verdi , affrontati in importanti rirprese (“Giovanna d’Arco”, “I due Foscri”, “Ernani”, “I Lombardi alla prima Crociata””).
Chi scrive ha avuto una consuetudine di rapporti diretti di ascolto e anche di natura personale.
La prima volta che ascoltai Bergonzi dal vivo fu nel 1971 (avevo 19 anni) alla Rai di Torino: Don Alvaro (“La forza del destino”) cui seguirono nel ’72 Manrico de “Il trovatore” (Macerata, Arena Sferisterio), nel ’76 Radames (Arena di Verona), nel ’77 Macduff del “Macbeth” (Teatro Regio di Torino) e nell’86 Roldofo della “Lusica Miller”(piazza di Busseto) per limitarmi a Verdi. Indimenticabili gli anni dal 1985 al 1997 all’Accademia Voci Vediane di Busseto frequentati nel ruolo di uditore-gironalista musicale. Nel luglio di quegli anni appresi molto sulla vocalità di Verdi. Una delle prime domande che posi al celebre tenore fu “Cosa s’intende per tenore verdiano?”La replica chiara, senza giri di parole com’era nel suo stile. “Ci si deve chiedere se la categoria stessa di tenore verdiano abbia senso. La vocalità è talmente diversa che è difficile pensare a un’unità stilistica del repertorio. Ad essere verdiano è il colore, è la respirazione, in altri termini il fraseggio e il controllo della dinamica anche sulla singola frase che diventa indispensabile per dare, attraverso il canto, una tridimensionalità teatrale ai personaggi “.
Bergonzi frequentò tutto il repertorio di Verdi, davvero tutto, ampiamente documentato in una discografia che offre oltre un trentennio di performances. Dovizie di testimonianza sonore a cominciare dalle trentuno arie delle venticinque opere di Verdi realizzate per la Philips a Londra (1974). Un progetto di cui andava fiero in modo partciolare dove le arie, se ascoltate in successione, permettono di riconoscere i tratti comuni di questa voce benedetta da Dio. Non vano dimenticte le incursioni nel repertorio donizettiano (“Lucia di Lammermoor”, “L’elisir d’amore”) e nella produzione post-verdina (“La Giconda”, “Tosca”, “Manon Lescaut”, “Bohème”). Una discografia di alto pofilo sia in studio che in versione live: basti pensare a direttori quali Karajan, Walter, Giulini, Mitropoulos, Solti, Pretre oppure al fianco di primedonne come Callas, Tebaldi, Sutherland, Cossotto, Verrett. Bergonzi un tenore che non esito a definire “storico” e punto imprescindibile nella storia vocale non solo nelle opere di Verdi.