Chieri e il Covid. “Cinque anni per dimenticare, ma io non ci riesco…”
“Gentile direttore,
sono passati cinque anni da quando si apprese dell’epidemia che stava colpendo il lodigiano.
Il Covid nelle settimane seguenti avrebbe bloccato e impaurito interi continenti. Cinque anni per dimenticare, ma io non ci riesco.
Per qualcuno pare che non sia mai capitato, un ricordo lontano.Quando vado al cinema, quando vedo per televisione i concerti, le partite, quando vado al supermercato non posso fare a meno di tornare alla mente a quei giorni desolati, irreali.Irreale è stato il giorno in cui a piedi mi sono recato davanti alle camere mortuarie dell’Ospedale di Chieri per aspettare l’uscita di una bara di una persona a me cara. Sentivo il rumore dei miei passi sul porfido di Piazza Umberto tanto era il silenzio in quel sabato mattina.
La città era deserta, così come richiesto. Mi stavo attenendo alle severe regole imposte; quelle regole le ho rispettate, ma mi sono parse assurde, esagerate, dettate forse da un’eccessiva prevenzione. Come l’accompagnamento al cimitero: solo due persone. E se una mamma aveva quattro figli? Nessuna risposta, solo due familiari.
Abbiamo perso quella generazione che insegnava ai propri figli le preghiere, di fare il segno di croce se si passa davanti a una chiesa o se passa un carro funebre. Abbiamo perso quella generazione che ci ha trasmesso la fede e che per uno strano disegno del destino non ha avuto che una veloce preghiera all’ingresso del cimitero. Per loro né una Messa, né il decoro di un vestito, di un rosario tra le mani; quel rosario sgranato quotidianamente per i figli, per i nipoti, è stato loro negato. Così come il conforto di chiudere gli occhi con accanto un figlio, un amico, una sorella.In quei giorni terribili si disse che quando sarebbe tornata “la normalità” per ogni morto sarebbe stato celebrato il funerale in chiesa “senza cadavere”; così come si usa per i dispersi in mare, celebrare cioè senza il corpo del defunto.
La tanto declamata “Chiesa, ospedale da campo” o “Chiesa in uscita” se n’è dimenticata, così come, in certi casi, redigere l’atto di morte in sede parrocchiale.
Confusione, carenza di notizie, settimane di chiusure: ora il tempo ha fatto dimenticare a tanti l’ansia e gli interrogativi di quei giorni.
Certo dobbiamo guardare avanti, ma il rischio altissimo è che coloro che hanno vissuto in prima persona quei giorni terribili siano dimenticati.
Il tempo si dice lenisce il dolore, il mio no, come il ricordo. Come la solitudine con la quale abbiamo in tanti vissuto quei giorni disperati senza, tornata “la normalità”, nessun supporto, nessun conforto. Finalmente liberi di andare allo stadio, ai concerti, al supermercato, in chiesa.
Finalmente liberi, ma più soli.”
Un chierese