Santa Margherita da Cortina del Pelleri, Sant’Andrea e Sant’Antonio del Miel
di Antonio Mignozzetti
Negli ultimi decenni del Novecento, quasi tutte le tele delle cappelle del Duomo furono gradualmente restaurate e rese di nuovo godibili. Ma alcune o sfuggirono alla metodica campagna di restauro o, forse a causa di particolari condizioni ambientali, pur restaurate, dopo pochi decenni versano di nuovo in cattive condizioni.
Una di esse è la pala di Santa Margherita da Cortona, della cappella omonima, attigua a quella della Madonna delle Grazie: una cappella originariamente appartenente alla famiglia dei Valimberti, poi ai Visca, ai Baronis e da ultimo alle Sorelle del Terz’Ordine Francescano quando dalla chiesa della Pace si trasferirono nel Duomo. Insieme alla proprietà la cappella mutò più volte anche il titolo: da quello originario di San Giuliano, a quello dell’Annunciazione e infine a quello di Santa Margherita da Cortona. Il quadro raffigurante la Santa, che seguì il Terz’Ordine Francescano nel suo trasferimento dalla chiesa della Pace in questa cappella del Duomo, è un’opera settecentesca di Lorenzo Pelleri di Carmagnola.
L’altra tela che intendiamo richiamare all’attenzione dei Chieresi è la pala di Sant’Anna e Sant’Antonio da Padova, nella cappella omonima, la seconda della navata sinistra a partire dall’ingresso. Una cappella appartenuta alla Corporazione dei Sarti per poi, nel 1648, passare alla famiglia Robbio di San Raffaele: una ricca famiglia di “fustanieri” facente parte della numerosa schiera dei nobili “de non albergo” e nel 1653 aggregata alla nobiltà di Chieri. Nel 1794 la cappella passò in eredità ai Curbis, conti di San Michele e nel 1896 alla Compagnia di Sant’Antonio, in precedenza ospitata nella chiesa di San Francesco demolita all’inizio dell’Ottocento. La pala è un’opera dal punto di vista artistico molto più prestigiosa di quella di Santa Margherita da Cortona della quale abbiamo appena parlato. Rappresenta i Santi Anna e Antonio da Padova, titolari della cappella, insieme alle sante Agata, Barbara, Caterina d’Alessandria e Orsola (che non sappiamo per quale motivo nel dipinto siano state associate ad essi). Si tratta di un’opera di grande qualità e nuova nel linguaggio, molto ammirata nell’ambiente piemontese ancora legato al gusto tardo-manierista del Moncalvo. Fu commissionata a Roma da Baldassarre Robbio nel 1650 e dipinta nel 1651 dal fiammingo Jan Miel: un pittore che, nato a Beveren-Waes nei pressi di Anversa nel 1599, fu allievo del rubensiano Gerard Seghers e, forse, di Van Dick. Trasferitosi a Roma, si orientò verso il “barocco classicista” di Andrea Sacchi per poi accostarsi ai “bamboccianti”: pittori seguaci dell’olandese Pieter van Laer, detto “Bamboccio”, che prediligevano una pittura “di genere” eseguita con linguaggio caravaggesco. Nel 1659 Miel si trasferì a Torino dove visse e lavorò come pittore di corte fino alla morte, avvenuta il 3 aprile 1664. Si dedicò a soggetti sia sacri che profani, passando disinvoltamente dallo stile classicheggiante ed aulico a quello popolaresco (“bambocciante”), da quello dichiaratamente barocco a quello più incline agli schemi del classicismo.
Le due pale delle quali stiamo parlando hanno due aspetti in comune: sono entrambe incorniciate in splendide ancone di legno dorato, che con la loro preziosità ne sottolineano il degrado. E sono così sporche da apparire come due macchie scure messe in cornice. Urge un intervento di ripulitura che ne riporti alla luce i colori e ridia loro la vitalità che, si può starne certi, li caratterizzava all’origine. C’è da dire che la seconda è stata già restaurata circa cinquant’anni fa dal restauratore Antonio Rava, ma forse le condizioni ambientali della cappella nella quale è conservata non sono ideali.