“Oggi ci siamo e domani chissà…”. Un argomento scomodo
Nel mio lavoro di Chinesiologa Clinica in RSA ormai da diversi anni, vengo spesso a contatto con l’evento della morte, che dovrebbe essere naturale per un grande anziano che si avvicina inesorabilmente al fine vita, ma a questo momento nessuno è davvero pronto, e se “Oggi ci siamo e domani chissà …” è ancora più vero che quando abbiamo un qualche legame affettivo con la persona che viene a mancare, diventa ancora più difficile accettare il momento, complicato il parlarne. Il lutto diventa un periodo che deve essere fisiologicamente e necessariamente elaborato attraverso le sue varie fasi (posso citare per esempio, il tempo, il dolore, la memoria e l’oblio) per riportarlo alla normalizzazione. La perdita è traumatica e irreversibile perché non c’è il ritorno di chi si è perduto (Freud parla dell’oggetto perduto che potrà infine essere sostituito) ma ciò che non si può perdere è il ricordo quindi ciò che ci lascia quella persona, i suoi insegnamenti e ciò che recuperiamo dalla sua storia, dai suoi vissuti e da quello che noi possiamo portare di quella persona, anche nella nuova e naturale esperienza di distanza, con rispetto e gratitudine per ciò che è stato e non è più.
In questo periodo, in questi ultimi anni di pandemia, abbiamo fatto i conti con la morte in modo ravvicinato, questa è diventata un fatto sociale globale che toccandoci da vicino o da lontano, ci ha riportati in una dimensione del riconoscimento del momento di passaggio tra una dimensione di presenza a quella dell’assenza, del vuoto, della fine. Muoiono persone a noi care, muoiono anziani, giovani, bambini, muoiono attori, calciatori, personaggi famosi e il decesso unisce tutti, come fenomeno insito nella vita dell’essere umano, ma talvolta la morte ci coglie impreparati, ci spiazza e parlare di questo tema ci rende vulnerabili.
Perché la morte: la morte è un argomento “scomodo” ma tutti noi sappiamo che prima o poi andremo incontro alla morte. La famosa battuta “l’unica cosa quando uno nasce è la morte, tutto il resto può esserci o no” è un evento sicuro. Cosa intendiamo per morte: dal punto di vista filosofico la morte è la cessazione dell’organizzazione del corpo. Il nostro corpo è organizzato in modo che diversi organi svolgano diverse funzioni e servizio in tutto il corpo, esiste tutt’una organizzazione che fa sì che il corpo viva. Per morte intendiamo la cessazione di tutta quest’organizzazione. Dal punto di vista medico occorre fare un discorso ancora più complesso in quanto occorre vedere quali nuclei del cervello cessano di funzionare. Alcune parti dopo la morte continuano a vivere per giorni ancora, ad esempio, prosegue la crescita di capelli e unghie, ma non c’è più l’organizzazione del corpo in sé stesso. Biologicamente, le cellule contengono sacche di acido e quando è terminata la vita della cellula le sacche si aprono e distruggono la cellula dall’interno. L’apoptosi, per esempio, è la morte cellulare programmata: le cellule si autodistruggono, questo è un processo biochimico e fisiologico naturale. Esiste quindi una programmazione intorno alla morte. Anche a livello genetico se parliamo di clonazione c’è tutto un discorso sulla riproduzione del DNA e dell’RNA e sulla loro organizzazione biochimica. Se cloniamo un uomo di una certa età nascerà un bambino che avrà una vita breve in quanto già programmato con cellule dell’età biologica certa. La morte, quindi, è qualcosa di progettato, previsto in tutta la realtà vivente. Anche le piante e gli animali hanno un loro ciclo vitale. L’unica eccezione dove non è prevista la morte è quella delle cellule riproduttive.
Ma quanto può vivere l’uomo? Studi scientifici dimostrano che l’essere umano in assenza di malattie e in presenza di condizioni favorevoli potrebbe vivere dai 120 ai 180 anni. L’essere umano è programmato per vivere tanto ma poi dipende tutto dalle condizioni di salute, dalle malattie genetiche, dai problemi cardiocircolatori, dallo stile di vita e quindi, l’uomo non arriva a vivere tutto questo tempo e si ferma prima.
In Italia e in Giappone abbiamo un’elevata probabilità di vita, l’età media è alta perché si ha un buon servizio medico nazionale e condizioni sociosanitarie migliori rispetto al passato. Oggi circa diecimila persone hanno più di cento anni. In passato questo era considerato un fatto straordinario. L’età della morte quindi si allontana. Per tutti questi motivi quindi, la morte diventa un argomento spiacevole. Una volta, infatti, il morire era considerato un elemento proprio della vita. Si moriva ad un’età “bassa” anche per le condizioni di vita, che oggi sono migliorate e soprattutto, morivano molti bambini. Oggi quando muore un bambino ci impressioniamo molto ma una volta era quasi nella norma. Quindi le famiglie erano numerose proprio perché si prevedeva già che potessero morire un certo numero di figli. Un tempo si diceva proprio di non affezionarsi troppo al nascituro perché avrebbe potuto morire. L’esperienza della morte era comune in quanto vi era anche uno stile di vita diverso. La vita rurale, infatti, veniva vissuta anche a contatto con gli animali: questi hanno una vita molto più breve e avere degli animali domestici (tra l’altro trattati meno bene di quanto noi oggi li possiamo trattare) abituava al concetto di morte. Molto comune anche l’esperienza di uccidere, però: occorreva uccidere gli animali per potersi nutrire e quindi galli, suini, ovini … ma anche le piante i vegetali, la frutta: il ciclo di vita caratterizzato dalla semina, fioritura, crescita del frutto e poi la morte. Esisteva dunque, un contatto continuo con la morte.
Con il passare degli anni abbiamo avuto uno sviluppo economico che ci ha allontanati dalla vita contadina, dalla natura e questo ha avuto una ricaduta sull’osservazione della natura stessa, del suo ciclo vitale nelle sue varie fasi. I tabù sessuali nati nel XIX secolo, per esempio, sono nati proprio dal distacco dall’uomo dalla vita animale. Così, anche per la morte ritroviamo la stessa cosa. Si iniziano a separare i moribondi e i malati dai soggetti sani: si dividono, e oggi soprattutto si avverte questo rifiuto della morte. La società attuale fortemente narcisista, rifugge i vecchi e cadenti corpi, si allontana dal deterioramento psicofisico e accetta mal volentieri l’invecchiamento e la malattia. Il bello deve emergere mentre il brutto, il cammino verso il fine vita deve essere tenuto al margine. Oggi ci sono strutture specializzate per ospitare i malati e i moribondi e quindi la persona prossima al decesso non si segue più in modo ravvicinato come un tempo. La famiglia ha vari impegni lavorativi e sociali, e non si può occupare direttamente del malato, ma ricoverandolo in struttura, i parenti hanno la “coscienza a posto” certi e soprattutto speranzosi di una buona assistenza, mentre, nel caso contrario può capitare che riversino a livello inconscio nel personale sociosanitario (che cura e accudisce il paziente), le loro ansie, le loro angosce. Una volta non si “lasciavano” i malati in Residenze e Hospice, ma si seguivano in tutta la loro involuzione nel “letto di morte domestico” e anche i bambini erano partecipi all’evento. Ma successivamente queste pratiche sono diventate un tabù: quindi un tema proibito, che da noia, mette le persone a disagio. Tabù come un qualche argomento che non deve essere trattato e i bambini non devono saper nulla e non devono entrare in questi discorsi. Nella nostra cultura poi il bambino non dovrebbe nemmeno partecipare al funerale, non dovrebbe vedere e toccare il cadavere, non dovrebbe assistere al decadimento fisico e cognitivo del soggetto. Cosa dice la psicologia a riguardo? Dice esattamente l’opposto. Importante è infatti il contatto del bambino con il malato e successivamente con il cadavere. Deve sentirlo, toccarlo, andare al funerale e vedere dov’è collocata la tomba, ad esempio del nonno, in quanto questa pratica aiuta il bambino a collocare concretamente il nonno morto che non c’è più (e non è partito per un viaggio senza possibilità di concreto ritorno), aiutando anche a regolare la vita stessa del bambino. Una spiegazione possibile a questo tabù è che “Se si pensa alla morte non si programma più la vita perché tanto si muore e allora che senso ha il progettare la vita …” un’altra osservazione: “Se penso alla morte poi mi rattristo, mi deprimo …” ma queste sono scuse che mettiamo in atto per proteggerci, per evitare di fare pensieri “cattivi”. La spiegazione è, in realtà da ricollegare ad un fenomeno bio-fisiologico: l’uomo ha un nucleo del cervello, nell’ipotalamo, che oscilla segnando il tempo. Questo nucleo rallenta durante la vita. Rallentando le oscillazioni abbiamo la sensazione che il tempo acceleri: “è di nuovo Natale …, è già passato un altro anno …” da bambini questo tempo è dilatato proprio per questo meccanismo. L’inconscio elabora queste oscillazioni che diminuiscono con l’avanzare dell’età facendoci percepire una velocità maggiore nel trascorrere del tempo. Questo fenomeno è importante perché il bambino ha molte cose da imparare e il tempo serve per fare esperienze diverse. Per gli adulti, per gli anziani, questo sistema varia non solo per i motivi biologici sopra citati ma anche in quanto occorre essere coscienti che la vita è fatta per durare un certo tot ed è fatta per terminare. Quindi: la morte è una parte della vita e non è divisibile ma è un tutt’uno. Il tempo è movimento, e a questo proposito la percezione del tempo è data dal funzionamento dell’amigdala che elabora le emozioni e che va a memorizzare i ricordi che si associano a particolari stati emotivi.
Morire diventa argomento proibito e porta le persone a delegare, non parlare, ma il dolore è vero, noi lo sentiamo e lo esterniamo, anche se a volte è meglio non vedere, non soffrire: “Non lo vedo soffrire e così non soffro nemmeno io”. Si arriva quindi alla paura della morte: ciò vuol dire che percepisco la morte come qualcosa di terribile, che danneggia senza dare un vantaggio. Una paura enorme di morire … ma la paura è genetica e ci protegge, il classico esempio è quello di un filo d’erba che se passato sulla pelle ci sveglia e ci allerta. Questa è la paura originaria e ancestrale che ricorda gli insetti velenosi che potevano attaccare i nostri antenati. Ma la paura arriva anche con l’esperienza, ad esempio non avere l’esperienza del terremoto: le scosse non ci indicano nulla solo se non abbiamo sperimentato in prima persona cosa realmente può succedere. Oltre la morte filosofica c’è solo la religione. Davanti alla morte non ha più senso nulla. L’unica cosa è cercare di soffrire il meno possibile ma non è mai semplice. Cosa dice la religione in merito? La visione sapienziale si può trovare nell’Antico Testamento a partire da un certo punto in poi, perché prima la morte era uguale per tutti. La morte portava alla Sheol ovvero l’entrare in un posto buio e spiacevole. Con la Rivoluzione progressiva l’antico popolo di Dio ha cominciato a capire che il dopo morte non è uguale per tutti, grazie alla comunicazione della resurrezione. Una delle antiche tecniche di preghiera per avvicinarsi senza paura al giorno fatidico, era la visualizzazione. Venivano poi effettuate antiche preghiere di preparazione alla morte. Nella visione mistica del Nuovo Testamento San Paolo parla della bellezza del morire perché si va a stare con Cristo, dove c’è la speranza non della morte, ma della vita che c’è oltre la morte. Se ci pensiamo bene, l’essere umano più che di morire ha paura di soffrire, infatti, (forse un po’egoisticamente per chi rimane) chi di noi non ha mai pensato nella propria vita ad una frase tipo questa? :“Piuttosto che patire per anni infermo in un letto di sofferenza preferisco un colpo secco e via …”. La morte allora diventa una realtà “desiderabile” e ci si appoggia sulla fede. Intervengono altre conoscenze quali la materia, la fisica quantistica, la forma …. Il corpo muore, l’anima vive senza il corpo … l’anima non si vede perché invisibile ma ha orizzonti infiniti.
Nella Bibbia abbiamo la suddivisione tripartita: corpo-anima-spirito. Il corpo è un mezzo che usa la mia persona per entrare in rapporto e comunicare. Il corpo è un mezzo che viene utilizzato per gestire e per condurre la vita. Questa vita poi continua altrove, l’anima sarà eterna e le varie religioni la glorificheranno. Si muore deboli si rinasce forti, si muore mortali si rinasce immortali … Nel momento della morte io cambio il modo di essere presente, la modalità di vivere, ma io rimango sempre io, cosciente a me stesso. Il Vangelo dice: “Dove c’è il tuo tesoro, là c’è il tuo cuore. Resti vicino a quelle persone e non vicino a Dio”. La persona allora muore libera dai limiti della comunicazione del corpo e non ha voglia di cercare altro. I defunti vanno incoraggiati al passaggio verso Dio non tenendoli legati a sé. Fidandosi di Dio, la morte sarà una esperienza bella. Più la persona cerca e si affida a Dio, più il coronamento della sua vita sarà la morte. Alla fine di tutto si raggiunge quello che si cercava.
Secondo l’antropologo Bronislaw Malinowski che ha scritto vari articoli sul tema, la morte è forse la fonte principale delle credenze religiose e l’evento più sconvolgente di tutti gli eventi umani. La morte è un evento circondato dal mistero, dato che la maggior parte degli esseri umani non accetta la possibilità che tutto si risolva in un annullamento terminale avendo la certezza che ciò avverrà. L’aspettativa di essere giudicati nell’aldilà può spingere ad un comportamento socialmente conforme e dare agli individui la sensazione di poter controllare il loro destino finale. La religione, del resto, ci aiuta in questo passaggio, il legame tra la morte e l’immortalità porta alla credenza in una vita ultraterrena: quando si presenta la morte, l’idea che la fede può infondere all’individuo è quella della morte terrena. Numerose ricerche e sondaggi rivelano che vi è credenza in un’altra vita e, molti cattolici sostengono che le azioni compiute in vita determineranno il destino nell’aldilà a livello spirituale e non corporeo. Gli anziani che si avvicinano alla morte ritengono il mito di una esistenza dopo la morte, solo illusione. Elevate però restano le credenze relative al paradiso e all’inferno. La prima credenza di fede è più forte della seconda e questa è di natura utilitaristica e auto-proiettiva e soprattutto autoprotettiva.
Dott.ssa Roberta Benedetta Casti,
Psicologa, Chinesiologa Clinica.