Un frammento di città, tra Tepice e Via San Pietro…
di Valerio Maggio
Da poche settimane è stato abbattuto il plesso scolastico all’angolo tra via Tana e via San Pietro, sorto nel 1963 sulle rovine dell’antico convento di Sant’Andrea. Inserito in quel frammento di città – una volta già un po’ periferia, “el borg del Neùv”, raccolto tra la piazzetta, i bordi del rio Tepice e la stessa via San Pietro – per un bel pezzo del ‘900 è stato silenzioso testimone di una vita semplice ma autentica portata avanti con grande dignità da chi risiedeva in quel contesto.
Sul lato sinistro i “magnin” – gli stessi che il sabato pomeriggio si improvvisavano venditori dei settimanali locali (Arco, Alfiere, Corriere e Chierese) strillonando dalle vie del borgo sino al centro cittadino – occupavano le prime case. Poco più in là altre costruzioni, le stesse di oggi, (davvero poco è cambiato dal punto di vista urbanistico) ospitavano numerosi nuclei famigliari capaci di alternare il telaio alla zappa. Sul cortile interno di una di esse si affacciava lo studio del pittore Edoardo Ferrero (1928 – 2003) a sua volta confinante con un fatiscente fabbricato a due piani, ora ristrutturato, posto all’angolo con via del Gualdo.
Occupava quelle misere stanze un “ferrivecchi” (tralascio volutamente sia l’identità che il soprannome anche se sono passati più di sessant’anni) che con estrema difficoltà cercava di mettere insieme, ogni giorno, il pranzo con la cena. Possedeva uno scarcassato furgoncino Ape con il quale “batteva” il nostro territorio a caccia di ogni tipo di metallo (reti di materassi, portiere d’automobili o, più semplicemente, scarti provenienti dalle officine della zona) da rivendere ai “Pierobon” di strada Baldissero. Una quotidianità estremamente povera cui si aggiungeva un particolare non di poco conto: nessuno in quella famiglia (una madre, un padre e due – forse tre – figli) poteva contare su di un’entrata economica sicura.
I rumori provenienti dai poveri locali posti al piano terreno in alcuni momenti potevano però trasformarsi in suoni carichi di vitalità: frizzanti, palpitanti, vivi pronti a testimoniare i rari momenti sereni della famigliola. Come quando, all’arrivo di una scimmietta rimediata non si sa come dal capo famiglia, si decide di ammaestrarla. Legata notte e giorno al battente del pozzo che occupava – che tuttora occupa – l’altro angolo della via si mormorava che ad addestrarla e farla danzare fosse stato, in prima battuta, il baffuto “ferrivecchi” (eh sì, sfoggiava importanti baffi). Nei momenti di piena lucidità (lo stordimento del vino spesso la faceva infatti da padrone) raccontava a chi sostava ammirato davanti alla bestiola come fosse stato facile: «Basta tempo e pazienza – diceva. Basta trattarla bene e soprattutto non picchiarla altrimenti dimentica anche quanto appreso».
A chiudere la via – ancora presenti – il pilone votivo dedicato alla Madonna mentre, dall’altro lato, lungo tutto il suo percorso, l’imponente complesso della Tintoria Caselli si ergeva a simbolo della plurisecolare vocazione tessile della città.