Era bello vedersi a scuola e passare la pausa intervallo davanti al banco della pasticceria
di Nicoletta Coppo
Era autunno, o forse primavera, non ricordo bene la stagione, ricordo tuttavia che Marghe indossava una gonna chiara, portava i collant color crema ed era avvolta in una morbidissima mantella dai toni écru. Mi domandai chi fosse quella signora elegante che aspettava nell’atrio della stessa scuola privata dove lavoravo anche io, in attesa del cambio ora. Marghe all’epoca aveva con sé un computer portatile, se ricordo bene eravamo nel Novantacinque e negli uffici all’epoca non c’erano neanche i computer normali. Seguivamo lo stesso gruppo di studenti, lei insegnava filosofia, io arte. Lei aveva nove anni in più di me, lei era una signora, io ero una neo laureata che sognava Parigi, Londra e New York.
Lei era generosa e ritardataria, l’appuntamento con il nostro gruppo di studenti era per il primo pomeriggio, lei di solito arrivava con un bel ritardo e con un vassoio di salatini di Basiglio. Si mangiavano salatini (io e gli studenti), e si rideva fino a tardi.
Era bello vedersi a scuola e passare la pausa intervallo davanti al banco della pasticceria per un caffè e una brioche, era diventato il nostro appuntamento. Marghe mi raccontava della comune di Copenaghen, io non avevo niente da raccontarle, se non i miei sogni, ma non glieli dovevo raccontare, poiché li intuiva.
Lei non aveva fidanzati, io ero in cerca dell’amore della mia vita. Lei spesso mi diceva: “Niky, gli uomini non servono a nulla… meglio una provetta in frigo”. All’inizio non capivo il senso della battuta, poi con il tempo la condivisi…
Marghe non era a favore della coppia, ma dell’amicizia, della libertà individuale, dell’autonomia della persona. Quando fui prossima ai trent’anni, le presentai il mio fidanzato, non mi disse che le piaceva, ma fece di tutto per farmelo lasciare, anche se passò nottate a impaginargli la tesi…sapeva che ci saremmo lasciati comunque. In effetti, dopo anni di relazione, lo mollai in quattro e quattr’otto. Marghe non gioì, né mi fece i complimenti, semplicemente mi consigliò di spassarmela.
Già, era il duemila, e noi due dal novantasei avevamo aperto una nostra scuola, eravamo diventate socie oltre che amiche e sorelle. Passavamo la maggior parte del nostro tempo insieme in un grande ufficio condiviso, e poi come se non bastasse a volte ci vedevamo di sabato pomeriggio nel suo laboratorio o nella chiesa di San Guglielmo dove lei metteva in ordine l’archivio. Parlavamo tanto, eravamo l’uno lo scrigno dei segreti dell’altra, e anche quando non si parlava ad alta voce, si intuiva. Da come apriva la porta dell’ufficio capivo se era serena o incazzata, e se era incazzata le sparavo su due cazzate che la facevano ridere.
Il momento più bello per me era quando Marghe faceva pulizia negli armadi e mi portava pezzi vecchissimi degli anni Settanta o Ottanta che io indossavo con grande orgoglio. In effetti le cose più fighe che ancora adoro sono di Marghe, gonne a fiori, camice in cotone dai colori sgargianti maglioni morbidissimi, che lei comprava da Capra. Mi ricordo una favolosa mantella di Castelbaljac, un maglione con i disegni Disney che aveva consumato tanto era affezionata. Io ricambiavo con la frutta e la verdura dell’orto di mio padre, con pezzi di formaggio comprato in montagna e altre cose di provenienza sicura. Ma in realtà con lei non si doveva ricambiare, poiché era generosa di natura sua.
Potrei riempire pagine e pagine di Marghe, ma penso che solo chi ha avuto la fortuna di conoscerla da vicino possa sorridere nel leggere queste mie righe. Io mi ritengo di essere fra tutti i suoi amici la più fortunata poiché ho passato con lei ventidue anni. Ventidue anni di riflessioni, di pensieri, di mezze parole, di grandi ricordi e di silenzi.
Non voglio continuare ricordando gli ultimi mesi, poiché nella mia mente Marghe è quella della gonna color crema, del pc portatile, delle enormi borse di abiti usati, delle pozioni magiche, della mandragola del Gran Burrone.