Sindaco socialista nel 1920, sopravvisse ad un attentato dei fascisti e morì d’infarto nel 1937
di Valerio Maggio
A cento anni dall’uccisione di Giacomo Matteotti (10 giugno1924) da parte di una squadraccia fascista agli ordini di Benito Mussolini – delitto da ascriversi tra gli eventi più importanti della prima parte della storia del ‘ventennio’: segna infatti una cesura tra un prima (la marcia su Roma) e un dopo (l’instaurazione definitiva di una dittatura sempre più repressiva) – è d’obbligo ricordare chi a Chieri si oppose sin dall’inizio a quel regime totalitario.
Si tratta del sindaco socialista Giovanni Davico classe 1880, figlio di Ilario, operaio tessile e, poi, piccolo artigiano, che nel 1884 lascia Chieri per traferirsi a Torino, nella popolare ‘Barriera di Milano’, alla ricerca di lavoro. Giovanni lavorerà come meccanico tessile nella stessa azienda in cui è occupato suo padre prima di far rientro a Chieri con la qualifica di operaio addetto ai telai a mano. Soddisfa a Messina l’obbligo militare nei bersaglieri mentre durante la Prima Guerra mondiale ha la fortuna di essere impiegato soltanto nelle retrovie. Al suo ritorno, insieme al fratello Lorenzo, è dipendente della tessitura dello zio che successivamente sarà costretto a chiudere la fabbrica dopo numerosi scioperi indetti per motivi salariali, che vedono l’attiva partecipazione dei due nipoti.
Giovanni Davico è uomo di grandi doti intellettuali e morali, leader storico dei socialisti chieresi, con i quali, nel 1908, conquista la Società generale operaia e, nel 1920, il Comune diventandone sindaco. Scambierà presto questa carica con Angelo Menzio – in quello che fu il ‘biennio rosso chierese’ – per affrontare con lui oltre ai problemi interni all’Amministrazione, la spinosa abolizione (loro malgrado?) della recita della preghiera e dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari. (Fonti sicure racconteranno come negli stessi anni, ma anche in periodi successivi Davico, fosse da sempre insieme ad altri industriali chieresi, anch’essi di fede laico-socialista, un benefattore del convento di San Domenico donando in inverno legna e carbone per riscaldare l’enorme stabile a quel tempo occupato da decine di frati e di studenti). Si opporrà con ogni mezzo alla violenta ascesa del fascismo pagando di persona un pesante contributo come quando – riconosciuto dalle locali ‘camicie nere’, insieme allo stesso Menzio ed a Baletti, come uno dei maggiori nemici del regime – viene fatto oggetto non solo di insulti (così lo apostrofavano: “con la pelle di Davico noi faremo tamburini per suonare Giovinezza a Benito Mussolini”), ma anche di feroci minacce che sfoceranno in un grave attentato alla sua persona. Una notte una ‘squadraccia’ lo attende nell’androne di casa non prima di aver tagliato i fili dell’energia elettrica. Appena spunta gli buttano del pepe negli occhi prima di accoltellarlo alla schiena. Stanno per finirlo, quando una nipote che abita nell’alloggio vicino sente il trambusto e si mette a urlare mettendo in fuga gli assassini. Si salverà dopo una lunga e dolorosa convalescenza. Costretto dagli avvenimenti a lasciare qualsiasi incarico si dedicherà esclusivamente al lavoro. Insieme al fratello gestirà un’azienda tessile, in via Vittorio Emanuele, con telai a mano, che però verrà distrutta da un incendio. Da qui il trasferimento in via delle Rosine 18 dove avvierà, da solo, un nuovo stabilimento dotato, prima di otto poi, di dodici telai meccanici che gli permetteranno di produrre coperte di alto pregio. Si sposerà nel 1928 ed avrà tre figli. Colpito, come molti altri, dalla ‘crisi del ’29’ si indebiterà per continuare a garantire il posto di lavoro ai propri dipendenti. Nel 1932, già malato, cederà l’azienda, (non per niente si chiamerà ‘Successori Davico di: Francisetti, Maina, Quagliotti’) fornendo ai nuovi titolari il suo disinteressato appoggio tecnico – industriale maturato nel tempo. Muore nel 1937, all’età di soli cinquantasette anni, per un infarto.